Cos’è successo al LUDiCa il 19 Settembre?

Fabio Pinna

a cura di Daniela Di Mauro

Fabio Pinna

Il ruolo dell’Archeologia Pubblica nella Public History. E viceversa” è stato il titolo della sesta lezione della «Bottega Digitale» del LUDiCa 24. Il prof. Fabio Pinna, docente di Archeologia Pubblica e Comunicazione dei Beni Culturali dell’Università di Cagliari, ci ha fornito l’inquadramento di un ambito di studi e pratiche che, per la sua vocazione al coinvolgimento dei pubblici, è strettamente connesso alla Public History.

L’Archeologia Pubblica prende le mosse dall’esigenza di rispondere alle domande poste dalle comunità presenti sul territorio interessato dalle campagne di scavo. Scegliere di rispondere a queste domande significa dotarsi di strumenti e competenze specifici tutt’altro che marginali.

Dopo questa considerazione preliminare, la lezione si è incentrata sulle risposte che spesso sono state date alla domanda: Che cos’è l’Archeologia pubblica? Per qualcuno è il tentativo di dare una risposta alla crisi generale della cultura, per altri è un modo per riallacciare i rapporti della ricerca archeologica con la società e per altri ancora l’Archeologia Pubblica è solamente una moda. Al contrario, per i più convinti sostenitori della materia, l’archeologia “o è pubblica o non è”.

In realtà, volendo dare una definizione più completa possibile, l’Archeologia Pubblica nasce dall’esigenza di rendere più efficace la trasmissione di contenuti culturali a un pubblico non specialistico coinvolgendolo in esperienze di appropriazione di conoscenze più mature e consapevoli, che possa avere ricadute positive in altri ambiti come quelli economici, politici e dell’amministrazione dei territori.

Un nome strettamente legato alla nascita dell’Archeologia Pubblica è quello di Peter Ucko, che può essere considerato il fondatore della disciplina. Ucko, tra gli anni 60 e gli anni 80 del Novecento, lavora come responsabile dell’Istituto Australiano di Studi Aborigeni a Canberra, dove incoraggia fortemente la partecipazione delle comunità indigene australiane agli studi sul proprio patrimonio culturale. Questa impostazione disciplinare militante lo porterà nel 1986 a escludere i suoi colleghi bianchi del Sudafrica dalla partecipazione al Congresso dell’Unione per le Scienze Preistoriche e Protostoriche di cui era organizzatore, conquistando l’epiteto di “razzista al contrario”. Il professore a questo punto fa un inciso sulla questione, sempre attuale, del coinvolgimento di questioni politiche in ambito culturale; tema su cui tornerà rispondendo alle domande conclusive.

Ucko porrà in seguito l’accento sulla dimensione sociopolitica della ricerca archeologica, gettando le basi, a partire dalla metà degli anni Novanta, della Public Archaeology.

Da quel momento si avrà una ricca produzione bibliografica in materia di Archeologia Pubblica. Un titolo su tutti è “Archaeology is a Brand” di Cornelius Holtorf che, tra le altre cose, insiste sulla necessità, da parte degli specialisti, di passare da un atteggiamento top-down a uno bottom-up nei confronti delle comunità. Questo punto, fondamentale anche in ambito di Public History, si ricollega ai principi definiti dalla Convenzione di Faro, sottoscritta in Italia solo nel 2020, che riguarda proprio le ricadute del Patrimonio culturale sulla società, stabilendo, tra le altre cose il principio che debba essere proprio la comunità a determinare che cosa faccia parte della propria eredità culturale e cosa no.

In Italia, tra gli altri, bisogna ricordare Riccardo Francovich che già negli anni Settanta elaborò per primo dei progetti che mettevano in primo piano la ricaduta sul territorio.

Tra le esperienze e le buone pratiche che mettono in rapporto la ricerca archeologica con un pubblico più vasto, il professore cita il Museo della Cripta Balbi di Roma, la fiera di archeologia organizzata da Tourisma a Firenze, il gruppo coordinato da Guido Vannini, sempre a Firenze, e la rivista e sito web Archeostorie.

Il professore a questo punto sottolinea come l’Archeologia Pubblica, alla pari della Public History, si basi su pratiche di ricerca e di azione, aspetti che devono dialogare continuamente tra di loro come in un processo di sistole e diastole, che rendono l’archeologo pubblico una sorta di “scienziato sociale” e, citando l’archeologo Daniele Manacorda, un “traghettatore tra passato e futuro”.

Passando a un focus regionale, il professore sottolinea come la Sardegna sia considerata l’ “Isola dell’archeologia”, in una narrazione un po’ stereotipata, spesso funzionale al reperimento di finanziamenti, che si contrappone spesso ai problemi reali del territorio. Esempio di risposta a questa impostazione, è un convegno organizzato da Marco Milanese, coordinatore della campagna archeologica di Geridu, che ha riguardato non solo i villaggi abbandonati del Medioevo ma anche gli abbandoni attuali.

Avviandosi alle conclusioni, il professore ha fatto poi una panoramica su progetti e buone pratiche coordinati da lui stesso tra i quali ricordiamo il Progetto di Luogosanto, piccolo comune che ha visto la propria identità minacciata dalla vicinanza con la Costa Smeralda, i cui risultati positivi, rilevati in un sondaggio, hanno confermato l’importanza della presenza degli archeologi nella comunità, e il progetto Borghi dell’Archeologia, a Bassano in Teverina, con il Trentapiedi dei Borghi. Questi esempi riportano al tema delle Citizen Sciences, pratica che coinvolge la comunità nella raccolta di dati che diversamente non potrebbero essere raccolti, che ha visto la realizzazione di una piattaforma europea (eu-citizen.science).

Ultimo, ma fondamentale aspetto, riguarda la ricaduta delle pratiche di Archeologia Pubblica nelle nuove declaratorie. In questo senso in Italia sono stati ridenominati gli ambiti disciplinari di insegnamento ed è stato firmato il Decreto Ministeriale del 2/5/2024. Questo aspetto, su cui è tornato anche il professor Salice nelle conclusioni, frutto di una pressione del mondo accademico sul Ministero, è cruciale perché permette il riconoscimento anche professionale e formale dei ricercatori e delle pubblicazioni che si occupano di Public Humanities evitando il rischio di incorrere in discriminazioni.

Nel rispondere alle domande, tra gli altri aspetti, il professor Pinna ha sottolineato come le pratiche debbano essere sempre modulate in base alle domande della comunità, evitando di applicare un “format” in automatico. Ha inoltre evidenziato come il lavoro dell’archeologo pubblico abbia sempre una valenza politica perché ha a che fare con l’identità delle comunità e col tema della colonizzazione.


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